hapax

Hapax

Hapax – Promo EP


2014

Promo EP

  • Registrazione
  • Mix
  • Master

HAPAX – Recensione di Davide Valentini, Rockit.it

Loro lo chiamano “funk maldestro”, ma maldestri non sono per niente, anzi

Nascono quest’anno e fin da subito, senza perdersi in chiacchiere, sfornano quattro brani registrati tempestivamente, caratteristici di quello che a loro piace definire un “funk italiano dai contenuti maledestri” che, nel suo modo d’essere tale, ci delizia con toni da street band e ritmi incalzanti narrando simpatiche vicende e trasmettendoci una irrefrenabile voglia di ondeggiare, accompagnati anche da alcune parti strumentali che eccellerebbero come colonna sonora di qualche film poliziesco anni ’70 alla Starsky & Hutch grazie agli assoli di hammond tipo quelli che ascolteresti nei James Taylor Quartet.

A metà dell’EP, toni un po’ più caratteristici in “Chiappe Tostate” dove subentrano accenni di elettronica, che ricordano vagamente Herbie Hancock, e brevi assoli di tromba e sax seguiti da una allegra chiusura con “Non Sono Panzane” dove l’hammond enfatizza i ritmi della batteria che trascinano la chitarra, le trombe ed il sax diretti con rapidità. 

Solitamente, più teste ci sono, più complicata è la gestione dei propri compiti durante il processo creativo di un disco; loro sono 8 ed hanno saputo in poco tempo crearsi i loro spazi in un album che segue i principi standard di quel tipo di musica che ancora oggi coinvolge senza troppi problemi chi cerca nuovo materiale per animare le proprie giornate.



HAPAX – Recensione di Fabio Rizzoli

Hapax s. m. [dal greco ἅπαξ λεγόμενον, hápax legómenon, “detto una volta sola”]. Parola o espressione che ricorre una sola volta in un testo, in un gruppo di testi o nell’intera documentazione di cui si dispone per una lingua. Così ci dice il dizionario Treccani.

Insomma, “hapax” è sinonimo di unicità. E lo stesso dicasi per gli Hapax, al plurale e con la maiuscola. Che di maiuscolo non hanno solo l’iniziale, ma soprattutto il sound: superfunky però sghembo e quasi apoplettico, gran tiro dance e al contempo arrangiamenti raffinati e deraglianti, virtuosismi mai barocchi della sezione ritmica + fiati accostati a testi artatamente scollacciati, seppur con una morale più o meno esplicita (le liriche in alcuni brani ricalcano filologicamente la complessa struttura metrica del canto a repentina, la forma sarda di poesia improvvisata in musica, tipica soprattutto del Campidanese).

Ho avuto la fortuna e l’onore di assistere al loro battesimo del fuoco, il primo live del gruppo in quel di Bologna, in mezzo a un pubblico costituito da una eccitata gang (bang) di happy few. E il concerto è stato quello che se fossi molto giovane definirei “una figata”. Un hapax nel vero senso del termine. Suono compatto e denso, stratificato, che si sfrangia in ritmi complessi e articolati che però suonano facili e godibili anche per l’ascoltatore meno avveduto. Il ritmo è saldatamente affidato al fluido metronomo di Andrea Tavarelli (basso) e Filippo Mignatti (batteria), le acrobazie vocali provengono dall’ugola sempre extra-ordinaria di Luca Fattori (una delle migliori voci nell’attuale underground italiano), la polpa sonora arricchita di variopinte screziature timbriche è sbucciata e frullata dagli ottimi Riccardo Pittau (tromba, molto conosciuto e apprezzato nella scena impro-jazz), Marco Zanardi (sax baritono), Gabriele Bolognesi (sax alto) e Roberto Solimando (trombone), le cavalcate di note al passo / trotto / galoppo sono alle redini di Alessandro Altarocca (tastiere), e i sussulti riffadelici provengono dalle dita elettriche ed elettroniche (chitarra e computer) di Sergio Atzori, architetto musicale della band, in qualità di compositore e arrangiatore di tutti i pezzi e cofondatore assieme a Pittau dell’intero progetto.

Ricapitolando, siamo (più o meno) in zona funk, ma come se i Parliament si fossero fatti in vena dosi massicce di math rock. Ci si diverte un casino, è quasi impossibile non ballare, si ride per i testi, e contemporaneamente si resta ammirati dall’eleganza della composizione, dalla perizia di una costruzione ardita della trama armonica e ritmica, dalla sapienza degli assoli, sempre misurati e mai sbrodolanti. Che poi sono le caratteristiche della buona musica: roba intricata che suona immediata. E scusate se è poco. Merito da una parte della scrittura e dall’altra dalla qualità ed esperienza di musicisti navigati che riescono a nuotare al largo con la naturalezza di chi ha ancora abbastanza fiato per fare il periplo dell’isola senza affanno. Non mi resta che augurare lunga vita agli Hapax: io li seguirò dovunque decideranno di puntare la prua.


Leave a Reply